Beati sono coloro che hanno un paese dove tornare…
“Filignano ha origini anteriori al mille dell’era cristiana, trovandosi il suo nome in un instrumento del luglio del 962 riportato dalla ‘Cronaca Volturnense’, con dicitura ‘Fundiliano’, che indubbiamente è la originaria, tramutata poi nell’evo medio nell’altro di ‘Fondemano’ per giungere all’odierna. Il comune non ha stemma, per compenso (e impareggiabile!) gode la fama dell’insigne bellezza delle sue donne: e teniamo a porre in evidenza la magnifica caratteristica per riparare all’involontaria omissione rilevata nel I volume (a pagina 361 e giustamente a noi rimproverata)
da Il Molise dalle origini ai nostri giorni – Dott. Giambattista Masciotta (Volume 3 pagina 183) Arti Grafiche E. Di Mauro 1952
Con il tempo, senza rinunciare alla bellezza delle sue donne, Filignano si guarnì anche di uno stemma.
Oggi si possono trovare con estrema facilità informazioni, foto e testimonianze storiche su questo paesino Molisano, ma non è stato sempre così. Per secoli è stato uno tra tanti, conosciuto solo a coloro che vi vivevano o che vi si recavano per rare ragioni di affari.
Avevo sette o otto anni quando costruirono la strada che portava alla frazione di Lagoni dove era nato mio padre, con la strada arrivò a Lagoni anche l’acqua. Prima degli anni 60 l’unico modo per arrivare alla casa dei miei nonni paterni era scarpinare, per un paio di chilometri in salita, lungo un sentiero di montagna. Unica alternativa era trovare un’anima buona che ti prestasse un asino o due. Neppure Filignano centro era facile da raggiungere prima che costruissero l’autostrada, che da nord percorre tutta la penisola fino al sud Italia. Chiamata poi l’Autostrada del sole. I pullman da Roma o da Napoli dovevano inerpicarsi lungo la via Casilina una strada tracciata troppi secoli prima.
Filignano ha dodici frazioni in un raggio di 15 Km. Prima delle strade e delle automobili le frazioni avevano imparato a sopravvivere indipendentemente, affrontando in solitudine per svariati secoli tutti i disastri naturali e le troppe guerre degli uomini. Gli abitanti non si sono mescolati molto. Tuttora si può riconoscere la frazione di appartenenza dal cognome della famiglia.
Un’altra cosa che mi è sempre sembrata strana, data la poca distanza tra una frazione e l’altra, è il fatto che mia madre di Filignano e mio padre di Lagoni parlavano un dialetto diverso. Due dialetti molto simili, ma non uguali.
Isolati e sparsi qua e là, senza luce, senza acqua, senza strade carrabili: questa è stata la realtà della vita nel comune di Filignano per moltissimo tempo. Alla visita medica, a cui sottoponevano gli emigranti appena arrivati, vedendo la cicatrice che aveva su una gamba, i dottori chiesero a mio padre da dove venisse. Avuta la risposta, ridendo esclamarono “ Ahh! Il Pakistan d’Europa!”
Dopo secoli di immobilità, tutto cominciò a cambiare velocemente, dopo la Seconda guerra mondiale. La guerra non ha risparmiato il paesino abbarbicato sulle montagne, perché il caso ha voluto si trovasse proprio sulla sventurata Linea Gustav.
Fortunatamente sono nata dopo la guerra, per questo la mia storia di guerra è una bella storia che scalda il cuore. Ero in vacanza a Lagoni con i miei figli. Se non ricordo male eravamo alla fine degli anni Settanta quando un giorno mi sento chiamare dalla strada principale, che funge anche da piazza, infondo a quel vicolo dove qualcuno della famiglia di mia nonna, più di un secolo fa, aveva costruito la casa dove passo le vacanze.
“Patrizia! Vieni! Svelta! È arrivata gente, non parlano Italiano.”
Scendo veloce, vedo una famiglia, tutti in piedi vicino alla loro macchina, chiaramente non sono italiani. Chiedo loro se hanno bisogno di aiuto. Vengono dagli Stati Uniti. Dopo essermi presentata, l’uomo sorridendo, mi dice:
“Chiedo scusa per il disturbo. Sono tornato in Italia per far vedere a mia moglie e alla mia famiglia dove ho combattuto durante la Seconda Guerra mondiale” e si volta a guardare la sua famiglia con il più tenero degli sguardi. Nel frattempo, si erano radunati attorno a noi quasi tutti gli abitanti del borgo. Guardandomi fisso come se non ci fosse nessun altro e indicando da dove io ero appena spuntata, continua dicendo:
“Su per quel vicolo c’era una casa sulla sinistra salendo, con un camino di pietra lavorata, nella cucina. Sul muro di sinistra. La conosce? È ancora lì?”
“Sì”, rispondo senza nascondere la sorpresa. “Penso lei stia descrivendo il camino della mia cucina. Vuole venire a vedere?”
Ci trasferiamo tutti su per il vicolo, apro prima la pesante vecchia porta e poi la mezza porta ed eccoci nella cucina. Gli occhi dell’uomo si riempiono, in un attimo, di lacrime. Guarda la moglie e con un filo di voce:
“Vedi quel camino. Era il giorno di Natale del 1942 e c’erano 24 soldati americani attorno a quel camino, che cercavano di scaldarsi almeno un po’. E io ero uno di loro.”
Quel camino c’è ancora. Non ho mai pensato di rinnovarlo, e mai lo farò.
© Photo copyright Patrizia Verrecchia. All rights reserved.

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